12 Ago Cosmesi ed estetica: la psicologia della bellezza
Sfido chiunque a negare che non si è mai emozionato di fronte a un coloratissimo tramonto, o davanti alla dolcezza di un sorriso di un bambino. Ma la sfida è lanciata anche nel caso del disagio che possiamo provare di fronte alla sporcizia sul bordo di una strada o al disgusto per il sapore di un cibo avariato.
Tutti i nostri cinque sensi sono il cancello sempre aperto attraverso il quale entrano, a volte senza chiedere il permesso, oggetti, situazioni, eventi che elicitano le nostre emozioni: attraverso il gusto, l’olfatto, il tatto l’udito e la vista abbiamo l’opportunità di valutare e giudicare, secondo i nostri propri canoni, ciò che ci circonda, e con essi le nostre preferenze. Verosimilmente, vorremmo evitare ciò che non ci piace e fare nostro ciò che invece ci sollecita sensazioni ed emozioni positive. E la parte più interessante di tutto questo è l’estrema soggettività di queste valutazioni.
Fin dall’antichità l’uomo ha cercato di definire in maniera scientifica quali fossero i canoni di bellezza: addirittura attraverso formule matematiche, coma la «formula aurea», la cultura greca antica definiva «bello» ciò che rispondeva a specifiche proporzioni. Anche il concetto di «simmetria» fu scomodato per determinate l’attribuzione di «bello».
Questo tentativo si è poi rilevato troppo stringente rispetto alla libertà che i nostri sensi volevano prendersi per potersi sentire a proprio agio in risposta agli stimoli che ricevevano del mondo esterno.
Forse per non svalutare le sensazioni reali e percepite dall’individuo, si è cercato in qualche modo di «darci il permesso» di non dover sottostare a nessuna regola matematica, superando dei principi comuni o arbitrariamente troppo scientifici e riscoprendo il valore del soggettivo. Forse per questo motivo, e come giustificativo inappellabile, e nato il motto «Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace».
In un certo senso, questa semplice frase ci ha dato la possibilità non solo di sentirci a proprio agio relativamente ai giudizi personali che possiamo esprimere a fronte della stimolazione dei nostri centri corticali ma anche di liberarci dalle catene del «modello a tutti i costi». Superare lo stereotipo, evitare pregiudizi frutto di un’idea comune influenzata da canoni definiti «a tavolino» è una delle importanti conseguenze di questa libertà che abbiamo il piacere di mettere in pratica.
La sensazione di poter avere il diritto di possedere una propria opinione che rappresenta il nostro unico e personalissimo gusto, è altresì un importante carburante della nostra autodeterminazione e individuazione: sentirsi a proprio agio di fronte a un nostro giudizio, che potrebbe non incontrare la critica di un canone scientifico, non è una virtù da sottovalutare.
Ma cosa accade quando le sensazioni percepite non sono relative a ciò che è esterno a noi, ma proviene da noi stessi?
L’inganno più grande che ci viene fornito dallo specchio che riflette la nostra persona è quello che potremmo utilizzare quegli stessi canoni, azioni e reazioni che abbiamo utilizzato per ciò che invece è esterno da noi.
Se intorno a me provo disgustoso per il rumore del traffico urbano, se il pasto che sto consumando non è di mio gradimento, è molto semplice fuggire da queste sensazioni percepite negativamente: me ne vado, smetto di mangiare.
Ma cosa possiamo fare quando ciò che non risponde ai nostri canoni di bellezza scaturisce da aspetti del nostro corpo? In questo caso non possiamo fuggire da esso: questo lo faremmo se considerassimo le nostre caratteristiche fisiche come qualcosa di «esterno», alla stessa stregua di un suono stridulo o un tessuto ispido.
Ma la nostra immagine riflessa allo specchio siamo noi stessi, e non qualcos’altro.
Anche in questo caso scomoderò i nostri avi: l’ornamento del volto attraverso tatuaggi, pitture, ecc., è stata una pratica attuata sin dagli antichi Egizi per ridurre le imperfezioni, determinare la propria appartenenza a un gruppo o a una cultura, o semplicemente per piacersi di più o, in altre parole, trasmettere una specifica e desiderata immagine di sé. Inoltre non è da trascurare anche il fatto che la cura della propria immagine poteva avere anche significati igienici.
Tornando al mondo d’oggi, le tecniche e le possibilità di modificare il nostro aspetto variano dall’attività più semplice di un leggero trucco (e quindi operazioni temporanee) fino ad arrivare alle più invasive chirurgie (operazioni definitive). In mezzo tutto il mare delle possibilità tra le quali poter scegliere come agghindare il nostro corpo per renderlo più gradevole a noi stessi.
La cosmesi diventa dunque uno strumento da poter utilizzare per essere più in pace con sé stessi, prendersi cura di qualcosa (ovvero qualcuno) a cui vogliamo bene. E potremmo finalmente affermare che la cosmesi non è più soltanto un’attività prerogativa delle donne, ma a disposizione di qualsiasi individuo voglia trovare in essa uno strumento per piacersi di più.
Tuttavia non possiamo dimenticare un aspetto importante: il grado di intervento che attiviamo su noi stessi e la motivazione sottostante.
Un importante strumento ad uso della Psicologia Clinica di tutto il mondo è il «Manuale Diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali», ormai giunto alla quinta edizione (DSM 5): questo manuale classifica tutti i disturbi psicologici attraverso una serie di criteri che se soddisfatti ne determinano la patologia. Senza entrare nel dettaglio, basti sapere che la maggior parte dei Disturbi di Personalità hanno come criterio diagnostico il fatto che un particolare comportamento rappresenti un ostacolo alla vita sociale dell’individuo. Questo significa che — insieme ad altri criteri — se l’attuazione di un certo comportamento rappresenta un ostacolo alla normale vita quotidiana, possa rappresentare un sintomo di uno specifico disturbo.
Ho voluto presentare questa breve dissertazione teorica per tentare una categorizzazione dell’accesso alla cura della persona: quando questa è una prassi funzionale? Quando diventa invece disfunzionale, ovvero un comportamento che diventa ossessivo e limitante della vita sociale?
Quando l’accesso e l’utilizzo alle tecniche cosmetiche diventa un comportamento che non rappresenta solo un modo per piacersi di più ma un’ossessione, un’attività che alza sempre di più il livello di modificazione del nostro aspetto, quando il tempo che passiamo davanti allo specchio alla ricerca di un sé che non ci rappresenta più o peggio che vogliamo ad ogni costo nascondere agli altri, ecco che così come il DSM 5 pone l’attenzione al comportamento che ci allontana dalla normale vita relazionale, anche l’accesso disfunzionale alla cosmesi può rappresentare un sintomo di un malessere sottostante.
Per questo motivo, è mia opinione l’importanza di fornire ai centri estetici una linea guida che possa rendere il cliente consapevole del percorso di cura della persona che sta attivando, rendendole attività di utilità sociale.
Non è importante come una persona utilizza la cosmesi per adeguare il proprio aspetto: come accennavo, questa è un’attività che nasce quasi con l’uomo stesso. L’importante è avere la consapevolezza del motivo che sottende ad esso.
Dott. GianMarco Cellini, Psicologo Psicoterapeuta a indirizzo Analitico Transazionale, con esperienza maturata in ambito Clinico, Sportivo e Comunità di recupero.